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e altre guerre fra poveri
Un conflitto durato 100 ore, iniziato su un campo di pallone durante le qualificazioni ai Mondiali di Messico `70. Il racconto appassionante di Salvador-Honduras in un libro di Ryszard Kapuscinski sul perché le guerre servono a riempire le prime pagine dei giornali

Questo libro di Ryszard Kapuscinski - La prima guerra del football e altre guerre fra poveri - restituisce l'immagine di uno scrittore che insegna cos'è il disincanto: il disincanto è il sentimento di chi ha visto molto e molto ha vissuto, e sa che la realtà può essere misera e splendida, dolorosa e felice, lacerante e luminosa. Di chi sa però anche che comunque la realtà è sempre multiforme e profondissima; e che essa come tale può essere guardata, ma mai veramente compresa. Questo sentimento fa di Ryszard Kapuscinski il vero prototipo del viaggiatore, come di chi sa che guardare è il massimo che è possibile fare: guardare per capire se stessi, questo sì; guardare per raccontare, soprattutto. E se tutto ciò è già noto a molti - perché in effetti Ryszard Kapuscinski è una specie di mito, e non ha bisogno di essere presentato - tuttavia forse non molti hanno già avuto l'occasione di leggere questo libro, che è perfino difficile catalogare dentro un genere.

La prima guerra del football e altre guerre fra poveri è infatti una lunga serie di scritti, che qualificare come appunti o resoconti di viaggio pare troppo poco: talvolta essi hanno addirittura il carattere e la forza del saggio storico, e come documenti di storia potrebbero essere letti senz'altro; ma poi posseggono anche la grazia della letterarietà, e sottrar loro dignità di opera narrativa tout court sarebbe probabilmente altrettanto sbagliato. La prima guerra del football e altre guerre fra poveri è allora un libro a metà fra saggio e romanzo, come soltanto i grandi scrittori possono permettersi di scrivere; è un libro che guarda la realtà, dove la realtà è ora quella del Congo, ora quella del Ghana, ora quella del Sudafrica, ora quella dell'Algeria, ora quella dell'America latina, dell'Honduras, del Salvador. E dove ogni realtà è guardata da Kapuscinski - cui certo non sono mai mancati il coraggio o la passione, e neppure una certa «incoscienza» e «maniacalità», come lui stesso scrive - sempre attraverso quella vera e propria lente d'ingrandimento, quel vero e proprio attimo rivelatore che è la guerra. E sono sempre guerre fra poveri quelle che racconta Kapuscinski, per l'appunto; sono guerre fra piccoli Stati, fra piccoli Paesi.

In tutto ciò il calcio fa la parte di una scheggia: non è un pretesto, ma è il particolare che fa emergere il generale, come in certe istantanee della Magnum; ed è significativo elemento costitutivo della storia della guerra fra Honduras e Salvador, in alcune delle pagine più appassionanti di tutto il libro. Perché la guerra fra Honduras e Salvador era cominciata proprio così, da una partita di calcio, che le squadre dei due Paesi avevano giocato per le qualificazioni ai campionati del mondo in Messico nel 1970; era durata cento ore; aveva contato seimila morti e qualche decina di migliaia di feriti.

Questa guerra aveva ragioni molto serie, per quanto possano essere definite serie le ragioni della guerra; aveva allora ragioni molto precise: «il Salvador, che sta sul Pacifico, ambiva a conquistare l'Honduras che sta sull'Atlantico. In tal modo il piccolo Salvador si sarebbe trasformato di colpo in una potenza su due oceani». Ma nondimeno essa è definita da Kapuscinski la «guerra del football», perché il punto di vista di Kapuscinski è quello della storico che mescola i fatti microscopici a quelli macroscopici, che tutto conserva nella propria memoria. Anzi, il punto di vista di Kapuscinski è proprio quello che consente di riesumare dal passato i piccoli fatti che nella memoria si erano persi, oppure ai quali non è mai stata data importanza. Il punto di vista di Kapuscinski è quello di chi anche in una partita di calcio riconosce una scheggia della storia.

Può darsi che - anche senza quella sfida, che il Salvador aveva vinto per tre a zero e che era stata giocata in uno stadio «completamente circondato dall'esercito ... attorno al campo i cordoni dei soldati del corpo scelto della Guardia Nacional con i mitra spianati ... l'inno dell'Honduras salutato da una bordata di fischi e urla ... la bandiera nazionale dell'Honduras bruciata sotto gli occhi della folla pazza di gioia» - la guerra sarebbe comunque scoppiata; è sicuro che la guerra sarebbe comunque scoppiata, e che quella sfida fosse stata semplicemente la miccia che l'aveva fatta esplodere. Ma il racconto di Kapuscinski non va alla ricerca di cause ed effetti; è puro racconto - «sempre su un carro armato, la squadra dell'Honduras fu riportata direttamente dallo stadio all'aeroporto ... alcune ore più tardi la frontiera tra i due paesi veniva chiusa» - e semmai lascia che cause ed effetti siano intuiti dal lettore. Ed è tanto più facile farsi appassionare da questo racconto, quanto più il lettore vi ritrova Kapuscinski in prima persona: vagare per Tegucigalpa in cerca di un telex per comunicare a Varsavia lo scoppio della guerra, ritrovarsi nelle strade buie e deserte nel mezzo del coprifuoco, avanzare insieme con i soldati dell'esercito dell'Honduras lungo la linea del fronte, rischiare la vita nella macchia tropicale, assistere alla morte di un soldato di vent'anni.

Quello di Kapuscinski è puro racconto; ma è un racconto pieno di umanità, di pietà - infine di quel disincanto che fa di lui un grande viaggiatore, un grande scrittore, e potrebbe facilmente essere aggiunto anche un grande uomo: «i due governi sono rimasti soddisfatti della guerra, perché per qualche giorno Honduras e Salvador hanno riempito le prime pagine dei giornali di tutto il mondo e suscitato l'interesse dell'opinione pubblica internazionale. I piccoli stati del Terzo, del Quarto e di tutti gli altri mondi possono sperare di suscitare qualche interesse solo quando decidono di spargere sangue. Triste ma vero».

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