Selvaggi e sentimentali
Il Real, Lubitsch e Hitchcock. Mentre Zidane e compagni spadroneggiano in Europa, arriva in Italia una raccolta di articoli sul calcio di un furente tifoso delle «merengues», il romanziere spagnolo Javier Marías
Una volta letto, questo godibilissimo libricino del madridista
Javier Marías, romanziere oramai universalmente tradotto e
gratificato dal pubblico e dalla critica, innesca a botta calda tutta
una serie di domande. Calcistiche, prima che letterarie, visto che in
queste pagine si tratta di calcio, e della poesia del calcio. Selvaggi
e sentimentali è infatti la minuziosa anamnesi di una
passione pallonara: quella di Marías per il Real Madrid. Una passione
melodrammatica, furente, appena filtrata dal diaframma letterario che
consente allo scrittore spagnolo, sia pure in modo sbilenco e
volutamente autoironico, di prendere le distanze dalla pastosa sostanza
sentimentale del tifo. La maggior parte dei testi qui raccolti, scritti
tra il 1992 e il 2001, sono stati pubblicati in origine sul quotidiano El
País, o nel supplemento domenicale El Semanal. Del calcio,
Marìas ha una visione estremamente aggiornata e puntuale. Nomi,
nomignoli, date e anniversari: dentro, ci sono quarant'anni di prima
divisione spagnola. Al contempo, questa ammirevole analiticità è
stemperata dal bisogno drammaturgico di rendere riconoscibili questi
nomi, come se fossero volti del cinema, o personaggi dotati di un loro
spessore romanzesco, di depositarli lungo la linea sgranata del ricordo
accompagnandoli sentimentalmente con un'immagine, o una didascalia:
qualcosa che salvi dall'oblio. Così, ogni figurina ha stampigliato
addosso il suo carattere, la sua aura, la musica dei titoli di coda.
Perché si possa dire: se fosse regista, il Real sarebbe Ford o Lubitsch
o Hithcock. E se fossero un'eroina del cinematografo, Di Stéfano,
Netzer e Butragueño sarebbero, messi assieme, quanto si sia mai visto
di più somigliante, in un campo di calcio, a Grace Kelly, «minacciata,
ma che si difende a colpi di forbici».
Proprio il giochino del se fosse, praticato da Marìas in una lingua
concisa e diretta, rivela al lettore, di riflesso, l'universo
autobiografico dell'autore, che qui si racconta più scopertamente, con
il gusto della complicità, spogliandosi per una volta delle ambigue
dissimulazioni che avvolgono i suoi personaggi. Ci lascia sbirciare.
Scopriremo come l'autore di Domani nella
battaglia pensa a me nasconda trascorsi da sporco culée,
da tifoso del Barca. Lui, madridista, fedifrago forzato a cui è stata
imposta la pena più infamante: vestire i colori del Barcellona. Ma fu
l'extrema ratio: lo richiedeva la Liga casalinga allestita col
fratello nei pomeriggi del doposcuola. Di fronte, ventidue tappi di
latta foderati di tela, una specie di subbuteo ante litteram con le
porte di legno e di garza: «Tutt'e due eravamo e siamo del Real Madrid,
ma non c'è mai stato il minimo dubbio che mio fratello avrebbe giocato
con le lattine della nostra favorita, in quanto più grande e in quanto
inventore della faccenda...Fu più o meno come se mi fosse toccato
sempre fare la parte del cattivo nel giocare a cowboy e indiani, guardie
e ladri, alleati e nazisti, romani e cristiani...». Scopriremo come,
accanto al Real, Marìas sia devoto di una squadra, il Numancia, la più
piccola capitale di provincia spagnola, che all'epoca dei tappi di latta
militava in terza divisione. Vicino Numancia, a Soria, lo scrittore
madrileno trascorreva le vacanze estive, in un luogo «acconciato e
umile, dove il mondo sembrava essere in ordine». Il pallone, insomma,
si fa cornice tematica del tempo che passa e che ci è concesso
riagguantare, sia pure trasfigurato dalla lontananza e dal rovescio dei
sentimenti. Diventa, nella felicissima espressione di Marìas, «il
recupero settimanale dell'infanzia».
Ma, più di tutto, scopriremo in queste pagine un delicato raccordo tra
il calcio e la vita, o meglio: qualcosa che il calcio può insegnare
alla vita. Nel fútbol, scrive Marìas, non si considera mai ciò
che già si è fatto. Un passato di trofei, di vittorie, per quanto
scintillanti e senza appello, non basta ad arginare l'angoscia del
presente. L'eterno presente calcistico, per cui non c'è sbornia o
goleada o sberleffo che si possa accumulare, farne tesoro come nelle
altre attività dell'età adulta, puoi essere stato il migliore, ieri,
oggi non conta più, impone di vincere anche l'incontro successivo, come
se si ricominciasse da zero, sempre. «Bisogna riconoscere che il calcio
ha qualcosa di non definibile e che non si trova negli altri ordini
della vita: incita all'oblio, il che equivale a dire che non incita mai
al rancore»: che è forse una delle poche forme di oblio di cui ci si
possa fidare.
L'amore dissennato per il Real è dunque un frutto maturato
biograficamente. Marìas è di Chamberì, che non è un quartiere
madridista tra tanti. E' il quartiere madridista. Poi, cosa
nient'affatto secondaria, Javier ha cinque anni quando il Real, -
squadra stratosferica, quella, Di Stéfano, Puskas e Gento tutti in una
volta - prende a vincere la coppa dei campioni, nel `56, e si riterrà
sazio soltanto quattro anni dopo, nel `60, quando infliggerà un
indimenticabile 7-3 all'Eintracht di Francoforte, e quattro saranno i
gol di Puskas. Aggiungiamoci pure che la bambinaia di casa millantava
un'improbabile tresca con Francisco Gento, mitico picaro di quel Real.
Logico che ai merengue Marìas attribuisca un esclusivo potere di
plasmazione della memoria, la prerogativa, rinnovata di anno in anno in
base all'arbitrio del cuore, di poter riordinare e scandire gli eventi
di una vita intera.
Verrà dunque da domandarsi se il nostro abbia giudicato con benevolenza
l'amletico tira e molla di Ronaldo in terra brasiliana, il quale ha
trascorso un giorno a infamare Cuper e l'Inter di Moratti, e il
successivo a lasciarsi sfruculiare dalle coccole danarose del Real
Madrid. O se ha trovato disdicevoli le diafane camisas del
selezionatore spagnolo Camacho, messe a dura prova dall'umidità
nipponica e dall'indolenza dei suoi, durante il mondiale in estremo
oriente. O, ancora, vorremmo che ci raccontasse l'extrasistole che deve
avergli scompaginato le coronarie, quando Zidane ha staccato quella
girata a mezz'aria nella finale di Champions League, quest'anno, con il
Bayer Leverkusen, consentendo al Real di aggiudicarsi la nona Coppa
Europa. Come si farebbe con un decano della curva, durante la partita,
strattonandolo per la giacca; urlandogli all'orecchio che siete pronti a
scommetterci una bevuta, ché questa volta Roberto Carlos la butta
dentro per davvero.
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