«Tifavo per l'Arsenal Taranto»
Il controllo dei documenti e dei permessi avviene nella guardiola, appena varcato l'enorme ingresso del carcere Don Bosco di Pisa. Il tragitto che ci separa dal luogo dell'incontro è breve, ma pieno di porte e cancelli che si aprono e si richiudono alle nostre spalle. Ci sembra di indossare uno scafandro: in galera non si cammina, si contano i passi. La prima guardia ci scorta sino alla soglia dell'edificio interno, dopo aver attraversato un atrio. Il cielo è livido. La seconda guardia ci indica un corridoio, dove si affacciano la sala dei colloqui e la sala conferenze.
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È qui che avverrà l'incontro. In una stanza cinque metri per tre, disadorna e fredda. Alle pareti bianche due poster turistici impolverati. In fondo al lato più corto, una scrivania e due sedie di plastica. In un angolo, altre sedie accatastate. È qui che aspettiamo Adriano Sofri. Non l'ex leader di Lotta Continua, la cui vicenda giudiziaria ha diviso il Paese e fa ancora discutere. Ma l'altro Sofri: l'intellettuale apprezzato, l'acuto testimone dei nostri tempi. Quella che segue è un'intervista lunga e fitta nella quale Sofri parla di sé, della sua infanzia a Taranto, del suo amore per il calcio e del suo tifo per l'Arsenal Taranto. La tentazione è di aprire le virgolette e di non chiuderle più. È vero: in carcere solo il pensiero è libero di vagabondare. Sofri è in jeans, camicia a righe e gilet blu. Ha una stilografica e un quadernetto. Firma la liberatoria, con la quale accetta l'intervista, e congeda l'ultima guardia, quella che lo ha accompagnato dalla sua cella al luogo dell'incontro. Ora siamo soli. Comincia così un viaggio a ritroso nel tempo, che però non perde mai di vista il presente, col suo carico di attualità dolente.
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«Io da bambino ho vissuto a Taranto perché mio padre era in Marina. Mio padre è, anzi era, di Francavilla Fontana. E mia madre di Trieste. Ho avuto questa felicissima congiunzione di due estremi della Penisola di cui mi sono sempre congratulato con la sorte. Abitavo in via Cugini n. 10. Ricordo di aver frequentato la scuola elementare XXV Luglio: seconda, terza, quarta e quinta classe. La prima l'ho saltata, mia madre era maestra e, forse, la sapevamo lunga. A Taranto ho fatto anche due anni di medie in una scuola vicino all'ospedale militare. L'Arsenale, l'ospedale militare, la villa Peripato, il cinema Orfeo: questi erano i posti della mia infanzia».
Ha recentemente dichiarato di aver scritto il suo primo articolo sull'Arsenal Taranto. Com'è successo?
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«Avrò avuto dodici anni. L'ho scritto in un giornalino scolastico. Un giornalino poverissimo, stiamo parlando del dopoguerra. Taranto era in una condizione compassionevole. Il dettaglio che mi sono ricordato è un rimorso che mi porto dentro da sempre. Mi ricordo a memoria una frase durissima che scrissi in questo articolo. Una frase arrogante. Il Taranto aveva acquistato un centravanti che si chiamava Giorgis. E io, comportandomi come i giornalisti sportivi che sono particolarmente prepotenti - quasi peggio dei pubblici ministeri, perché danno i voti a tutti, sentendosi investiti di questo diritto - ho scritto testualmente: quasi sempre una delusione il tanto decantato Giorgis. L'avevo visto giocare male, evidentemente»
Con chi andava allo stadio? Tèa1991
«Al Mazzola andavo con mio padre. E con gli altri maschi della famiglia. Io ho un fratello grande, migliore di me. Lui frequentava già l'Archita. E aveva una fortissima passione per il basket. Ricordo che nella Triestina giocava un mediano di notevole stazza. Si chiamava Petagna e credo fosse nato a Taranto. Mio fratello riusciva meglio di me a conciliare il suo essere triestino e tifoso del Taranto. Io da piccolo ero più sfegatatamente meridionalista».
Che ricordi ha della città, di quegli anni di crisi, di miseria e di tensioni sociali?
«Erano tempi di grandissima povertà. Le lotte degli operai dell'Arsenale erano la punta di diamante della Taranto proletaria e operaia. C'erano tensioni sociali fortissime, che ovviamente ho ricostruito dopo. Io avevo una buonissima conoscenza del mar Piccolo. C'era una spiaggetta della Marina. Si chiamava Pizzone. Quella era, per me, una situazione di arcaismo favoloso. Ero molto amico dei marinai. Ricordo che c'era una bellissima figlia di un comandante della Marina alla quale venivo assegnato come controllore. Io, che ero un bambino, e questa bellissima ragazza andavamo in barca a remi sino a Buffoluto, la polveriera, la zona vietata. E succedeva che improvvisamente, mentre facevamo il bagno, passasse un motoscafo con un uomo armato di megafono a bordo che lanciava l'allarme perché veniva lanciato un siluro. Erano tempi di esercitazioni. E poi quel motoscafo ripassava, annunciando lo scampato pericolo».
Oggi Taranto che cos'è per lei: solo un posto dove ha vissuto, un luogo lontano nella memoria o una città nella quale, prima o poi, tornerà?
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«Ho avuto una sporadica frequentazione ai tempi della politica. Perché Taranto era molto importante: l'Italsider, gli operai che morivano in fabbrica, le lotte. E a molti militanti tarantini sono rimasto affezionato. A Taranto vecchia avevamo una sede particolarmente vivace. Un viaggio della memoria, però, non l'ho fatto. Lo farei volentieri perché ho una messe di ricordi senza pari. Perché sono gli anni decisivi. Sia quelli di Taranto che quelli di Trieste. A Trieste andavo d'estate per cui ho un'immagine rovesciata: più calda di Trieste, più fredda di Taranto. La maggior parte dei miei coetanei andavano scalzi e mi ricordo che c'era una grandissima diffusione del tracoma: una malattia degli occhi che deriva dalla mancanza d'igiene e quindi dall'essere particolarmente poveri. Con il tarantino Sandro Viola ho parlato spesso di Taranto. A Sandro regalai una pubblicazione preziosa che raccontava l'ingresso di una balena in mar Piccolo. Un episodio favoloso: non solo perché la balena venne a morire in mar Piccolo, ma anche perché al suo passaggio i marinai di guardia si misero sugli attenti perché scambiarono il cetaceo per un sottomarino. Con Sandro si parlava anche della straordinaria ricchezza archeologica di Taranto. Un giorno ero dentro l'ospedale militare, insieme ad altri bambini, e ho dato un calcio ad un sasso, poi ho guardato bene: non era un sasso ma una statuetta greca intera. Si trovava a fior di terra. Un avanzo di Magna Grecia».
Il calcio come recupero settimanale dell'infanzia. L'ha scritto lo spagnolo Javier Marìas. Lei ha dichiarato qualcosa di simile a proposito del calcio che si fa in carcere, «luogo di infantilizzazione forzata». Dove le è stato restituito una specie di «diritto all'ingenuità calcistica». Il calcio è un sogno fanciullo?
Tèa1991
«Se non lo è più, certo lo è stato. Perché ogni volta è così bello perché riesce a far emergere questa freschezza fanciullesca un po' ingenua. Quando non perde il senso del ridicolo che oggi è necessario che tutti i maschi adulti abbiano. Quando si dimentica di questo falso pudore, dell'orpello di tattiche e strategie, di queste ricostruzioni a posteriori, di come sono andate le cose e invece le cose, per fortuna, vanno sempre abbastanza fortuitamente. In carcere succede che la stupidità assoluta e ottusa, che prevale addirittura sulla cattiveria, dell'organizzazione carceraria renda tormentoso qualunque dettaglio della vita quotidiana. Perché non è solo vessatoria ma è anche superflua e gratuita. Non ti spieghi mai perché si fanno tante stupidaggini, tante cose insensate. Questa organizzazione toglie alle persone che sono in galera qualunque responsabilità. Che è il contrario di quello che dovrebbe accadere. Bisognerebbe responsabilizzare persone di cui si immagina che siano restituibili ad una vita normale e, dunque, piena di responsabilità. Questa organizzazione li costringe ad una vita infantile nel senso più umiliante del termine. Non è un caso che in carcere qualunque cosa bisogna chiederla, bisogna farne richiesta. E la richiesta che va fatta si chiama domandina. Ora, degli individui adulti, pluriassassini o innocenti che siano, sono costretti molte volte al giorno a fare una domandina. Per le cose più semplici e banali. Come comprare mezzo chilo di patate. Questa coazione infantilizzante della vita trova un rovescio nelle poche occasioni in cui i detenuti possono essere restituiti ad una specie di fanciullezza obbligata. Il calcio è una di queste occasioni. Perché ti fa scoprire il versante buono dell'infanzia. Io non avrei mai più giocato a pallone in vita mia se mi avessero lasciato a piede libero, come si dice. A 60 anni chi gioca a pallone cede ai futili motivi: quella palla è entrata, no era già fuori. In questo infantilismo c'è anche un agonismo esagerato, a volte pericoloso. Perché si rischiano i litigi, le risse, gli sciovinismi, le squadre etniche. Il calcio è molto cosmopolita. Gli arabi contro gli albanesi. Io sto sempre attento a fare squadre miste. C'è però anche un aspetto che ho definito omerico. Tutti si comportano con una specie di grandiosità. Si buttano nella mischia come Aiace, come Agamennone, come Achille. Una cosa molto maschile, perdonabilmente maschile. Nel gioco del pallone visto in carcere c'è una sorta di infanzia omerica».
A 61 anni lei continua a giocare: una partita ogni due giorni, «con determinazione quasi suicida», sfruttando l'ora d'aria. E a scrivere anche di calcio: memorabile quel pezzo su Lodetti e le sue partite segrete.
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«Scrivo di calcio perché il calcio è un grande specchio psicologico. La partita è una rivelazione assoluta del carattere delle persone. Dopo aver visto giocare per mezz'ora dei detenuti, ho la sensazione di conoscere quelle persone infinitamente meglio che avendo chiacchierato con loro. La scelta del ruolo è straordinaria nel calcio. Mentre ci sono sport dove esiste una specie di rotazione. Un bambino che gioca in porta o ha una vocazione rara e quasi artistica o è una vittima degli altri, uno al quale hanno detto: se vuoi giocare, vai in porta».
«In galera tutto è nulla», l'ha scritto lei. E il calcio, dove tutto è nulla, che cosa rappresenta? L'ultima consolazione?
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«Una simulazione di normalità. Nella mezz'ora in cui giochi ti sembra che stai facendo una cosa che anche gli altri fanno, che non è interamente deformata dalla galera. Stai giocando a pallone. Ma non ti dimentichi mai che quella partita la stai giocando in galera. Alla fine della partita la nostalgia è grande perché ti richiamano alla realtà e ti chiudono a molte mandate. C'è un'anomalia di fondo, che resta. E una caratteristica di questa anomalia è che persone che hanno un'aria quieta o rassegnata, perché devono stare altri dieci anni in galera o uscire fra tre giorni, si fanno la loro mezz'ora di calcetto alla morte, investendo in quella partita un carico emotivo che cinque minuti dopo sembrerà assurdo. Se avessi visto il portiere tuffarsi sul cemento, avresti detto che voleva morire, invece lui voleva solo parare. Su quel fondo duro mi sono fratturato tre volte, quasi sempre le costole. Per fortuna ora i sindaci della zona ci hanno regalato l'erbetta sintetica e anche una rete di copertura, per cui non perdiamo più il pallone che schizzava oltre il muro di cinta».
Gli allenatori come inutili strateghi, la discussione calcistica come l'erede diretta della passione per i partiti, il pallone rotondo sul campo diventa quadrato nelle discussioni competenti. Sono suoi pensieri. E suonano come un monito nei confronti dei teorici di tattiche e moduli, dei codificatori della verità. Ai quali sembra sfuggire il principio dell'indeterminazione, dell'imponderabilità del caso.
«Le cose del mondo non si lasciano governare dagli umani, questo però non significa che gli umani non debbano provarci. Debbono provarci sapendo che c'è un limite. In genere i tifosi e gli allenatori si dimenticano di questo limite e fanno finta che il calcio sia governabile per intero. La discussione su come è andata, fa simpatia. La discussione su come potrà andare, è ridicola. Perché si pretende di mettere le brache alla realtà futura. Napoleone ha descritto battaglie straordinarie, ma dopo averle combattute».
Ma il calcio, specie quello italiano, sembra entrato in una fase talmente schizofrenica da generare ad ogni occasione casi e situazioni emblematici di un degrado feroce e galoppante, per poi, subito dopo, rimuoverli, pur di gustarsi il piacere delle giocate di Totti e Del Piero. Perché?
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«Perché comincia la partita. Queste situazioni le trovo una parodia delle cose noiosissime che succedono in politica. Penso non si debba esagerare. Il calcio è ormai l'evento che ha più peso nella vita delle persone. Che occupa più spazio. Uno spazio esuberante. Ed è normale che ci sia una specie di adunata attorno al calcio e che chiunque tenti di intingere qualcosa».
E come reagire alle ripugnanti immagini degli incidenti di Avellino: che cosa fare al cospetto di una violenza così gratuita, infame e demente? Il futuro del calcio è a porte chiuse, prigioniero dei suoi eccessi?
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«Bisogna reagire malissimo, non avere nessuna indulgenza e non mi riferisco tanto alla polizia o alla repressione. Non avere nessuna indulgenza culturale e morale. Bisogna capire che il calcio è due cose contemporaneamente opposte. È la forma prevalente della ritualizzazione della violenza interumana, della sua anestetizzazione. C'è una violenza che nel calcio agonistico soprattutto diventa innocua e viene tenuta sotto controllo. Invece di fare la guerra si gioca a pallone. E naturalmente c'è un secondo aspetto e cioè: si gioca a pallone e ci si addestra attraverso quello a fare violenza. Questo è successo alle origini. La principale preparazione alla guerra, nelle società di un tempo, era la caccia. Si passava dall'addestramento alla caccia all'arruolamento per la guerra. La guerra non è che una caccia all'uomo. Lo dico perché non è un caso che i gol, prima di ricevere questo nome anglosassone, che vuol dire fine, si chiamavano cacce. Il calcio invece di essere la ritualizzazione cerimoniale e pacifica, diventa una specie di palestra nella quale ci si allena e ci addestra alla violenza fra umani. Nella ex Jugoslavia la vera guerra, combattuta con le armi per ragioni etniche, è stata preceduta da episodi mostruosi, in particolare da una partita tra le squadre di Zagabria e Belgrado, tra croati e serbi. Anteprima di quella che poi sarebbe diventata un'enorme rissa civile. Ecco perché non bisogna aver alcuna indulgenza con chi fa queste cose. Sono persone disgustose, oltre che stupide».
Torino, Triestina e Arsenal Taranto: le squadre della sua vita sono anche le squadre per le quali continua a nutrire un po' di simpatia?
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«Tutto ciò che si è amato, si continua ad amare, magari con una passione un po' più spenta. Sono più informato sulla Triestina, che ha avuto un'auge inaspettata. Il Taranto l'ho perso di vista ultimamente. So che vivacchia e me ne dolgo. Bisognerebbe fare come qui a Pisa: provare con un cane lupo. Scherzo, naturalmente. Ma ho saputo di quella protesta dei calciatori. Bravi, sono solidale con loro».
Sa che il Taranto, che era tornato a chiamarsi Arsenal, per sopravvivere è costretto a morire un po' alla volta, ostaggio di una crisi senza fine? Anche questa, in fondo, è una condanna. Come bisogna viverla?
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«Come tutte le condanne. Incazzandosi e controllando la propria incazzatura».
Che cos'è, secondo lei, il carattere di una squadra? Tèa1991
«Non è mai un marchio di fabbrica. Le squadre non nascono con un carattere. Però, se lo guadagnano nel bene e nel male. Come la povera Inter che si è guadagnata questo carattere di perdente, che a me fa un po' simpatia perché coincide con la gentilezza del suo padrone. E quindi rischia di convincere gli italiani che, ad essere gentili, si perde. E non è vero. E poi, anche se si perdesse, vale sempre la pena essere gentili. Ci sono squadre che ereditano il loro carattere dal grande campione, quello che ha nel cervello l'area corticale del talento. Uno può essere un deficiente nel linguaggio, nella memoria, nelle arti, ma ha il cosiddetto bernoccolo del calcio. Quando questo talento artistico del calciatore coincide con una tempra umana forte e generosa, allora succede il miracolo e il carattere della squadra viene interamente modellato da quel giocatore».
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Soltanto qualche decennio fa erano davvero pochi gli intellettuali disposti a confessare in pubblico la loro debolezza per il calcio, a lungo ritenuto una specie di oppio del popolo, con cui lo si ingannava e lo si distraeva. Che cosa è cambiato?
«Io non sarei così certo che gli intellettuali disdegnassero il calcio. Nei Paesi latini c'è una fortissima tradizione. In Italia c'è un'eredità nobile nel rapporto tra poesia, letteratura e calcio. Penso ad uno come Pasolini. Non c'è niente che spieghi Pasolini quanto il suo modo di giocare a pallone. Io l'ho conosciuto a Roma, a Porta Portese, su un campo il cui fondo era di carbon fossile. Penso a Saba, a Montale. E ai grandi cronisti. Credo che nello sviluppo della mia passione calcistica abbia contato un libro di Emilio De Martino. Un libro per ragazzi: "Pufi, storia di un cane sportivo". Pufi faceva il portiere e parò un rigore. Da lì è nata la mia passione per il calcio e per i cani».
È scomparsa la capacità di ammirazione, di semplice e puro godimento di fronte a un bel gesto tecnico. Perché?
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«L'ammirazione vera, quella disinteressata, altruista e gratuita, è insidiata dalla venerazione superstiziosa. Ma è ancora molto forte e la riconosco soprattutto nei ragazzi. L'ammirazione che non contiene invidia, ma un buon desiderio di emulazione. Io vivo, grazie al cielo e per colpa della cosiddetta giustizia italiana, a contatto con molti ragazzi. Maghebrini, albanesi, nigeriani. In questi ragazzi l'ammirazione ha un sapore antico. Quello di chi gioca con la palla di pezza e poi spia il suo campione con la speranza di diventare come lui».
Tutto è soggetto a cambiamenti: la fede, l'ideologia, il voto, il partito, le amicizie. Solo la squadra per la quale si fa il tifo non è negoziabile. E le viene concessa una fedeltà vitalizia. Perché?
Tèa1991
«C'è una fedeltà di cui si intuisce che non è micidiale come altre. Si è imparato il fallimento di altre bandiere, che possono portare a catastrofi, come le bandiere nazionali che quando diventano scioviniste portano alle guerre, o le bandiere ideologiche che portano agli stermini. Le bandiere di una squadra di calcio sono bandiere rassicuranti, che possono soddisfare il desiderio di dedizione, che è un desiderio generoso. Io, però, tendenzialmente sono favorevole al multitifo, alla possibilità di essere tifoso di più squadre. Alla possibilità di provare simpatia per chiunque a seconda della circostanza. Per chi è più debole, per chi è più sfortunato. Questo, se uno ci pensa, è un meccanismo costitutivo della lettura dei poemi omerici, in particolare dell'Iliade. In ogni momento si fa il tifo per qualcuno, poi magari lo stesso personaggio diventa odioso. Bisognerebbe sempre fare il tifo per chi in quel momento le busca. Dovrebbe avvenire nel calcio e nel mondo».
Il calcio, in fondo, è un pretesto per raccontare la vita: i suoi cambiamenti, le sue contraddizioni, le sue ansie, Ma anche il calcio, come la vita, qualche volta è ingiusto e non rispetta il merito.
Tèa1991
«Sì, sono d'accordo. Però non mi scandalizzo. Il calcio è maestro di vita proprio per questo. Che nel calcio sia compresa una dose di iniquità, dovuta anche alla fortuna, è innegabile. Ma è comunque una lezione decisiva per la vita. Perché la vita va così. Io continuo ad essere d'accordo con Machiavelli quando spiegava che nella vita la virtù conta moltissimo, ma la fortuna di più».
Ha parlato di Sud, di Mezzogiorno nei suoi scritti, nei suoi interventi. Ma forse il Sud di Adriano Sofri andrebbe meglio conosciuto, esplorato, capito. C'è un Sud di Adriano Sofri. E dov'è? E cosa c'è a Sud di Sofri?
Tèa1991
«Il Sud del mondo si è spostato infinitamente più a Sud. Però nella mia formazione umana e politica il meridione, l'esperienza vissuta, la questione civile, è sicuramente l'ingrediente più importante. Ho vissuto un periodo di precipitosi mutamenti. Ho fatto in tempo a vedere braccianti trattati come in epoca feudale. Le stesse idee informatrici della mia breve stagione politica erano condizionate da questa passione: l'idea dell'unità del proletariato del nord e del sud del mondo era assolutamente costitutiva di quello che noi pensavamo. Oggi ci troviamo di fronte alla proclamazione di una questione settentrionale, che è stata un'inversione probabilmente seria ma anche comica della commedia italiana. La questione meridionale è traslocata dal fondo della Penisola italiana al fondo del mondo, ai luoghi da dove arriva la nuova immigrazione. Ma il Sud, per ognuno di noi, dovrebbe rappresentare una cosa di cui bisognerebbe costantemente ricordarsi che se non ci fosse, non ci sarebbe il Nord».
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Lei è triestino, come Italo Svevo, Umberto Saba. Lei è quindi uomo di mare. Il mare ce l'ha in piazza, come ha recentemente detto Ottavio Missoni, parlando di Trieste. Da uomo che viene dal mare, le chiedo quanto il mare conti nella formazione, nella crescita e, complessivamente, nell'esistenza. A Taranto non c'è mare in piazza, ma quasi. Ricorda di aver elaborato, da ragazzo, analogie e similitudini fra Taranto e Trieste? Le manca il mare? Lo cerca? Cosa significa il mare per lei adesso? Ha una nuova dimensione visto, o meglio non visto, da questa latitudine?
Tèa1991
«Poiché una persona come me è fatta ormai quasi soltanto di nostalgie, e non di aspettative per il futuro, la nostalgia è per eccellenza il mare. E nel mio caso, siccome sono fatto di privazione della notte, la mia nostalgia è piena di un mare notturno. Persino questo futuro, del quale non m'importa niente, se dovesse esistere dovrebbe essere una specie di ritorno al mare. Trieste ha questa meravigliosa piazza Unità, che non finisce nel mare, ma che nel mare continua. Il suo lato aperto è come un abbraccio che va verso il mare. Da piccolo ero molto attratto dalle coincidenze fra queste due città in cui si dimezzava la mia vita. Che si somigliavano per varie ragioni, persino nelle consonanti componenti dei nomi, piene di t e di r. Io difendevo Trieste a Taranto e Taranto a Trieste, dai ragazzi con cui vivevo parte dell'anno. Passavo per terrone a Trieste e per polentone a Taranto. Difendevo Taranto e la sua formidabile dote, di città che possiede due mari. Con questa bellissima espressione di mar Grande e mar Piccolo. Chi ce li ha due mari? Adesso questa cosa mi sembra di una poeticità straordinaria. In galera non solo si chiama aria l'aria che respiriamo, si chiamano "aria grande" e "aria piccola" le poche ore destinate ad andare all'aperto. Abbiamo due arie come Taranto ha due mari. Da piccolo mi piacevano molto i campi di cozze. Il mare di Taranto era eccezionale. Le cernie ti venivano in faccia a due metri di profondità. Quando ero bambino, appollaiato sui magnifici pali di cozze, con una lenzetta in mano, pescavo le orate e gli spari. Quando ero bambino».
di Lorenzo D'Alò
Adriano Sofri è nato a Trieste il 1° agosto 1942. È recluso nel carcere di Pisa dal 24 gennaio 1997, dove sta scontando una condanna definitiva a 22 perché ritenuto il mandante dell'omicidio del commissario Calabresi, avvenuto a Milano nel 1972. Negli anni '70 fu il leader di Lotta Continua e direttore del giornale dell'omonimo movimento di estrema sinistra. Fu arrestato per la prima volta nel 1988. La condanna, dopo diversi pronunciamenti della Cassazione, è diventata definitiva nel 2000. Oggi è un uomo ricco di cultura e di passioni, fra cui il calcio. Più volte s'è parlato della possibile grazia per lui.
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