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Una serata di calcio

Una serata di calcio. Allo stato puro. Non troviamo altra didascalia per la serata di giovedì. L’invasione di Pippo Russo a Taranto ci pare riuscita in pieno. Alla fine è sembrato non bastare il tempo per approfondire gli argomenti offerti alla platea nonostante gli abbondanti 90’ (pura coincidenza) di conversazione. Affascinante il plot narrativo: la storia del calcio degli ultimi 15 anni messa in fila per “episodi” (le microvariazioni: tattiche, casacche sociali, fuorigioco, etc..) e raccontata con ricchezza di suggestioni di ogni specie. Un momento di riflessione diventato collettivo che ha letteralmente coinvolto i presenti. Non poteva essere diversamente considerata la qualità dell’ospite. L’intento è stato raggiunto: riflettere in profondità sul fenomeno calcio e scongiurare il rischio di macchiarsi di acquiescenza. Inutile ripercorrere la cronaca della serata (consigliabile prescrivere l’acquisto del libro). Importante conservarne il senso, lo spirito, il gusto di parlare a Taranto (tra l’altro l’unica testata assente era quella di Taranto sera) di queste tematiche. Palpabile ad un certo punto è stata la percezione di strania mento sollecitata dall’ascolto delle novità introdotte dal governo calcistico e supinamente metabolizzate dalla vasta platea planetaria (ridotta a tifoso cliente). Sensazione che, logica vorrebbe, propedeutica alla produzione di anticorpi al cambiamento commerciale del calcio. Un cambiamento che è sembrato in alcuni passaggi già senza ritorno. Una compravendita dell’anima già perfezionata. Ma in altri passaggi è sembrata invece prevalere una atmosfera meno drastica, quasi malinconica; una malinconia attiva per dirla con l’autore, un po’ come quella che circonda i ricordi della nostra infanzia. Del resto, altra citazione, il calcio rappresenta l’infanzia, una sfera della vita che non si vuole cambiare.

Pippo Russo riflette sui mali del calcio

Pippo Russo ci fa riflettere. Con la sua ultima fatica letteraria, "L'invasione dell'Ultracalcio", ci mette in guardia dal pericolo che sta correndo il calcio, trasformato ormai in un prodotto solo lontano parente di quello ammirato per tanti decenni. In poco più di 150 pagine, il sociologo e scrittore siciliano trapiantato a Firenze da qualche anno, illustra quel campionario di gesti e regole che il calcio moderno ha spazzato via e modificato, alterandone la natura ludica: si va dall'impossibilità del portiere a poter riprendere il pallone con le mani dopo un passaggio all'indietro, alla difficile individuazione delle maglie dei giocatori (onorare quale maglia, ci si interroga a questo proposito), con lo strabordio di loghi e sponsor che macchiano la casacca sociale, alla scomparsa dell'autogol, al piacere ormai dissolto dello 0-0 che, con una certa vena provocatoria, Russo eleva a essenza del calcio, massima rappresentazione di questo sport. Una tesi che, per stessa ammissione dello scrittore, trova pochi proseliti e molti parere dissonanti.
L'opera è stata presentata in un'accogliente serata organizzata dal club "Tifo è Amicizia". Pippo Russo, che collabora con varie testate giornalistiche, ha illustrato i contenuti del libro senza però commettere l'errore di rimpiangere un passato che non potrà mai ritornare o comunque farsi prendere da nostalgie ingiustificate. Il messaggio, però, che vuole passare con forza è che il calcio non possa definirsi sport conservatore, perchè radicalmente mutato non solo negli aspetti regolamentari, ma anche nel suo contorno, con spazi televisivi che sfondano e scompaginano il rituale calcistico. Come avvenuto, in maggiore incidenza nella pallavolo che, con il cambio massiccio di regole, sembra essere diventata un'altra disciplina.
Il fondo, però, non è ancora toccato. Almeno l'autore si augura che ci sia ancora spazio per una reazione. Interessante l'idea di tifoserie che, al di là delle canoniche bandiere, sembrano coalizzarsi verso un nemico o un obiettivo comune. Anche se non solo tollerabili le scene a cui abbiamo assistito proprio nell'ultima settimana: Olimpico e San Siro su tutte. 
Le conclusioni del libro invitano, quindi, a scuotere tutti noi che ci cibiamo quotidianamente di questa travolgente passione. Quel popolo definito acquiescente che, parafrasando il titolo del libro, ha trasformato il proprio corpo in Ultracorpo, e che assiste impotente ad ogni innovazione e mutamento. Un panorama che Russo traccia con impeccabile descrizione e superba narrazione. La speranza è che gli aspetti fondamentali del calcio restino ancora intatti e che lo scrittore siciliano, alla fine, non abbia davvero ragione. di Luigi Carrieri

«L'invasione dell'Ultracalcio»
Presentato l'altra sera a «Tifo è Amicizia» l'ultimo libro di Pippo Russo. Anatomia di uno sport che non è più quello di una volta

Pippo Russo, professore di sociologia nelle Università di Firenze e Teramo, ha presentato giovedì sera nella sede del club «Tifo è Amicizia» l'ultima sua fatica letteraria: «L'invasione dell'Ultracalcio. Anatomia di uno sport mutante». Una retrospettiva sui piccoli mutamenti che hanno interessato (stravolgendolo) lo sport più popolare della nostra Italia dal '74 al '90, in particolar modo negli ultimi 15 anni. Russo è un nostalgico del calcio che fu, anche se non lo ammette. È sentimentalmente ancorato a concetti e situazioni tradizionali. Rimpiange il potere conferito ai portieri di prendere con le mani la sfera passatagli da un suo compagno. Si rattrista nell'osservare che ciascuna squadra possa indossare la seconda o addirittura la terza divisa anziché la «maglia» con i colori sociali. Non trova equa l'assegnazione dei tre punti a vittoria. Difende lo 0-0 come momento di confronto in cui il più debole riesce a strappare il classico punticino al più forte. Rimpiange l'autogol, praticamente scomparso dai tabellinio perché il nuovo calcio spettacolarizzato prevede con ogni gol abbia una legittima parternità e non può essere sporcato dallo stinco di un difensore. Come pure non vede di buon occhio i triangolari estivi da 45' perché le partite durano 90', l'annuncio dei minuti di recupero alla fine dei due tempi di gioco, le maglie con numerazione diversa dall'«1 all'11», l'espulsione per il fallo da ultimo uomo, la mancata segnalazione del fuorigioco in linea e la neo ligua che si è andata progressivamente affermando (fase offensiva e difensiva, di possesso e di non possesso, ripartenze) e la nuova terminologia dei ruoli (esterno, centrale, punta in luogo di terzino, ala e centravanti). Insomma per Russo il calcio è diventato Ultracalcio come gli Ultracorpi del celebre film di Don Siegel. L'autore è stato presentato da Antonio Fullone, coordinatore del club ospitante. Al fianco dell'autore c'erano il collega Lorenzo D'Alò, capo dei servizi sportivi della redazione tarantina della «Gazzetta», Luigi Carrieri del Corriere del Giorno, Antonio Serio, presidente del club ospitante, Umberto Barisciano del Coni provinciale e Vittorio Galigani. di Giuseppe Dimito

L'articolo di Marco Tarantino

L'articolo di Marco Tarantino in formato PDF - Dal Nuovo Dialogo

Servizio su 100 sport

Servizio su BS Television sport

Le sciarpe esposte

Presentazione serata

Il Gruppo "Tifo è amicizia 1991" presenta il libro
L'invasione dell'Ultracalcio
Anatomia di uno sport mutante

(ed. Ombre Corte) di Pippo Russo (docente universitario di sociologia, scrittore e giornalista). Interverranno, con l'autore, Lorenzo D'Alò della Gazzetta del Mezzogiorno e Luigi Carrieri del Corriere del Giorno
Taranto, giovedì 14 aprile 2005 - Ore 20,00 presso la sala da thè del Bar Cubana in via Acclavio, 62/b. In collaborazione con la libreria Dickens

Molti sono i cambiamenti che hanno caratterizzato il calcio nell'ultimo quindicennio. Si tratta di tutta quella serie di micro-variazioni che riguardano il regolamento e la sua interpretazione, i gesti, i valori, e ciò che si può definire il corredo simbolico del gioco. L'insieme dei mutamenti assume le sembianze di una guerra al "calcio che fu", condotta attraverso la cancellazione dell'autogol, la massiccia invasione televisiva, la ristrutturazione del tempo di gioco, il mutare del linguaggio, la rivoluzione dei tempi, una razionalizzazione delle tattiche che è presto mutata in reificazione, lo spericolato utilizzo dei colori sociali a fini commerciali, la scomparsa dei ruoli tradizionali, e la guerra al pareggio e allo zero a zero. Il tutto orientato da un'idea di spettacolarizzazione basata sull'esaltazione del gioco offensivo. Pezzo dopo pezzo, il calcio si è trasformato in Ultracalcio. Come gli ultracorpi del famoso film di Don Siegel, anche il calcio è diventato qualcosa d'altro mantenendo le stesse sembianze. In apparenza uguale a se stesso, in realtà ha subito una trasformazione che assomiglia a una mutazione genetica. Il calcio attuale è qualcosa di completamente diverso da ciò che era fino all'alba degli anni Novanta. Pippo Russo insegna Sociologia delle comunità locali e Politiche sociali presso l'Università di Firenze, e Sociologia dello sport presso l'Università di Teramo. È corsivista per "il Messaggero", "l'Unità" e "GQ". Di recente ha pubblicato Sociologia dei sistemi urbani (il Mulino, 2002, con Annick Magnier), Pallonate. Tic, eccessi e strafalcioni del giornalismo sportivo (Melteni, 2003) e Sport e società (Carocci, 2004). Collabora con il sito www.indiscreto.it. Un momento di riflessione e di divertimento. Questo vogliamo offrire. Un momento di riflessione sulla nostra passione, sulla nostra fede calcistica, sul modo di viverla. Una retrospettiva, ma soprattutto un modo diverso di guardare il calcio. Scoprirne i valori, i sentimenti, capirne l'essenza, osservare la sua direzione. Un tifo caldo, ma soprattutto anche un tifo cosciente è sempre stato il nostro obiettivo. Pippo Russo parla di noi, di noi tifosi, degli addetti ai lavori, del sistema calcio. Scrive con ironia, senza risparmiare dotte analisi sociologiche, ma con leggerezza godibile da chiunque. Per chi non lo conosce una occasione davvero unica per confrontarsi con il Calcio. Anzi, l'Ultracalcio. (tifo è amicizia 1991).

Il nemico pubblico numero uno
di Pippo Russo

Capitolo 4, anticipazione del libro 'L'invasione dell'ultracalcio, anatomia di uno sport mutante', per la casa editrice Ombre Corte, in uscita a metà gennaio

IL PORTIERE: UN RUOLO IN CERCA D'ATTORE



Questo capitolo è uno sviluppo delle considerazioni contenute nell'articolo 'Ma una volta i portieri si tuffavano', pubblicato su l'Unità dell'11 febbraio 2003.

Ogni appassionato di calcio dovrebbe affrontare un esperimento al quale noi, qualche anno fa e in modo del tutto inconsapevole, ci sottoponemmo. Gli sarà utile per scoprire le reazioni istintive, e la misurazione del ruolo che le categorie mentali hanno nel determinarle. Dunque, nell'inverno del 1993 o giù di lì, ci capitò di rivedere in videotape una gara del campionato inglese fra Aston Villa e Tottenham Hotspurs, giocata nel gennaio del 1992. La partita iniziò come molte volte accadeva alle gare inglesi di un tempo: calcio d'inizio battuto dal Tottenham, scambio fra i due giocatori nel cerchio di centrocampo e pallone passato indietro a un centrocampista, il quale lo smista ulteriormente indietro al portiere. Questi lo raccoglie con le mani e si appresta al rinvio lungo coi piedi. Alt! A questo punto, vedendo quelle immagini, siete già saltati sulla poltrona invocando la concessione di un calcio di punizione indiretto in area. Vedendo scorrere invano le immagini, darete del matto incompetente all'arbitro, reo di non punire un'infrazione talmente solare, e non vi capaciterete del fatto che gli stessi giocatori dell'Aston Villa non reclamino.

Vi ci vorrà qualche secondo affinché s'insinui in voi il dubbio che la partita in questione si sia disputata 'prima' che venisse introdotto il divieto, per il portiere, di raccogliere con le mani il retropassaggio volontario di piede, pena la concessione di un calcio di punizione indiretto in area. Una regola che sarebbe stata adottata soltanto qualche mese dopo quell'Aston Villa-Tottenham Hotspurs, nell'estate del 1992. L'esperimento sarà utile per diversi scopi. Innanzitutto, esso dimostrerà quanto la forza di una categoria mentale (abitudine appresa, interpretazione standard, lettura precostituita di una dinamica) s'imponga sempre e preventivamente, in forma pre-logica, alla nostra capacità di razionalizzare. Secondo, la misura del cambiamento intervenuto nel modo di giocare il calcio, e di vederlo giocare, risulterà immediatamente percepibile; facendo anche capire come sia impossibile tornare indietro, ché l'era in cui era possibile raccogliere con le mani il retropassaggio volontario di piede è stata espulsa persino dal nostro orizzonte mentale, figurarsi dalla pratica del 'giocare il gioco'.

Ma, soprattutto, l'esperimento mostrerà in modo straordinario quanto sia cambiato il ruolo del portiere. Che, nel generale mutamento attraversato dal gioco del calcio nell'ultimo quindicennio, è l'elemento che più di tutti è stato rivoluzionato, fino a essere stato reso quasi irriconoscibile. Si è già sottolineato come i cambiamenti regolamentari imposti a partire dall'estate del '90 abbiano avuto come scopo quello di favorire il gioco offensivo; fra essi, molti si sono rivelati frammenti di una sorta di 'guerra a bassa intensità' dichiarata ai portieri. Alcuni interventi, filosoficamente condivisibili, hanno avuto lo scopo di scongiurare le condotte ostruzionistiche e anti-regolamentari da parte dei 'guardapali'; altri hanno invece una valenza vessatoria, addirittura persecutoria, nei loro confronti. Ai portieri può accadere di essere espulsi per aver toccato con le mani il pallone fuori dall'area, nel caso in cui l'arbitro (con giudizio soggettivo, istantaneo e discutibilissimo) riscontri nell'azione interrotta i connotati della 'chiara occasione da gol'; stessa motivazione e medesima sanzione nei casi in cui essi commettano fallo da rigore sugli attaccanti lanciati a rete. I quali magari non avrebbero segnato lo stesso, ma intanto vedono risarcito il 'presunto danno' col tiro dal dischetto e l'eliminazione dal campo di un giocatore. Con l'interpretazione repressiva data dal regolamento a questa particolare situazione di gioco, siamo invece arrivati a contemplare una nuova fattispecie di rigori: i 'rigori da collisione'. Quelli che per il portiere sono inevitabili, e per l'attaccante sono frutto di una ricerca furbesca. La fattispecie del 'rigore da collisione' costituisce l'esempio più eclatante di una verità di fatto, sulla quale la quasi totalità del popolo calciofilo concorderebbe: il 'pensiero unico' che arma la propaganda favorevole al 'gioco offensivo', come solo canone tattico e stilistico degno di rispetto, ha individuato proprio il ruolo del portiere come 'nemico pubblico numero 1'. 

L'invasione dell'Ultracalcio ha avuto nel massacro della figura del 'guardapali' un tratto determinante. E il mutamento, come dinamica ultracorporea comanda, si è avuto con la diffusione di una figura 'altra' spacciata per medesima. Il portiere, in apparenza, è rimasto ciò che era. Nella realtà dei fatti, egli è il più mutante (e mutato) fra gli attori del gioco. Lo stato di guerra al portiere venne perfettamente sintetizzato dalla campagna pubblicitaria organizzata in occasione del lancio di una linea di scarpini da calcio Adidas, in prossimità dei Mondiali di Usa 1994. Il modello si chiamava 'Predator', e di esso venivano magnificate capacità di miglioramento nel controllo e nella potenza di tiro delle quali mai si ebbe conferma empirica. Si lasciava intendere che anche il più scarpone, indossando le 'Predator', potesse fare del pallone un attrezzo docile e domestico, e che la potenza di tiro ne sortisse raddoppiata. Il messaggio contenuto nella campagna promozionale faceva passare un'immagine nella quale, di questo prodigioso modello di scarpini, si giovavano tutti i giocatori tranne uno: il portiere. Che negli spot televisivi veniva raffigurato in pose terrorizzate davanti a plotoni di tiratori da esecuzione sommaria, o sommerso da valanghe di palloni all'interno della porta. Come se non anche i portieri dovessero indossare scarpini da calcio. Pulizia etnica? Qualcosa di molto simile. 

Il complesso di mutamenti regolamentari che è seguito alla svolta ideologica favorevole al gioco offensivo ha fatto sì che il profilo del portiere venisse stravolto non soltanto nei termini delle facoltà d'azione battezzate dal regolamento, ma anche dei modelli d'interpretazione dinamica e stilistica del ruolo. Rispetto a quel giorno del gennaio '92, quando si giocò la gara fra Aston Villa e Tottenham, i portieri e il loro modo di interpretare il gioco hanno subìto un cambiamento radicale, ai limiti della mutazione genetica. Sempre più viva è l'impressione che sia opportuno parlare di un 'giocatore di porta', al quale è richiesta una dimestichezza nel trattamento del pallone coi piedi non molto inferiore a quella necessaria ai suoi 10 compagni di squadra. E così, quello che era il ruolo che al massimo grado incarnava una 'diversità' interna al gioco del calcio, è stato omologato irrimediabilmente. E' possibile congetturare all'infinito sul quando e il come di questo mutamento. Un'opinione degna di menzione, come quella di un ex portiere del calibro di Stefano Tacconi, porta a indicare un punto di non ritorno nell'epoca in cui cominciò a diffondersi la zona come sistema tattico (Aldo Quaglierini, <Le papere dei portieri? Colpa della zona>, intervista con Stefano Sacconi, l'Unità, 5 febbraio 2003, p.20). 

Un'opinione certo fondata, ma che ha il limite di essere troppo radicata nel contesto calcistico italiano. Soltanto in questo paese, infatti, è stata vissuta una bizzarra guerra di religione fra 'zona' e 'uomo', che per circa un decennio monopolizzò il dibattito. In altri paesi, la zona ha attecchito in modo molto più rapido e indolore che in Italia. Una sorta di 'vento del Nord Europa' ha determinato la diffusione ormai pressoché uniforme di un sistema tattico che risponde a criteri di elevata razionalità e organizzazione scientifica del movimento collettivo. Dunque, letta a partire da questo stato delle cose, l'opinione di Tacconi risulterebbe, almeno parzialmente, forzosa. E' però innegabile che, con la diffusione della zona, il portiere sia stato costretto all'adattamento darwiniano a un nuovo sistema di gioco. Il quale, darwinianamente, ha spazzato via alcuni ruoli perché 'inadatti'. La diffusione della zona, con l'allineamento dei difensori e la loro forsennata ricerca del 'pressing alto' e del fuorigioco, ha dilatato la porzione di campo che il portiere deve proteggere, estendendola di almeno una ventina di metri oltre i confini dell'area di rigore. Da qui è sorta la necessità di un utilizzo costante dei piedi nel controllo del pallone, ovvero un 'fondamentale' che non faceva parte del profilo tradizionale del portiere. Di sicuro, la zona ha influito, e in modo netto. Spingendo i portieri all'utilizzo dei piedi molto prima che intervenisse il cambiamento regolamentare del 1992 (dal quale, semmai, l'obbligo venne esteso anche all'interno dell'area di rigore, e soltanto in circostanze ben determinate). 

La verità è che, per comprendere appieno quale e quanto profonda sia stata la trasformazione nel profilo del portiere, bisogna partire da un assunto che può sembrare paradossale: esso è stato trasformato in un ruolo come tutti gli altri. Il paradosso è soltanto apparente, poiché, almeno fino a una decina di anni fa, etichettando come 'ruolo' il profilo tecnico-agonistico del portiere si effettuava una semplificazione linguistica. Il ruolo calcistico, come si è detto, è un 'repertorio di comportamenti attesi' la cui crescente specializzazione segue una dinamica di natura principalmente tattica. Il portiere, invece, esprime una 'diversità'. Il suo specialismo non è tattico, né tecnico, ma 'ludico'. Egli 'gioca il gioco' in modo diverso dai 10 compagni di squadra. Si vede assegnato uno spazio privilegiato d'influenza (l'area di rigore), all'interno del quale può compiere il gesto che per gli altri giocatori è tabù: toccare il pallone con le mani. Vive la partita secondo un tempo diverso, alternando momenti di elevata pressione a lunghe pause di solitudine. Contrariamente ai 10 compagni di squadra, egli non è (non era) un 'giocatore di movimento', ma un 'attore della destrezza', chiamato a recitare la propria parte e a esibire un talento attraverso gesti circoscritti e spesso ad alto effetto spettacolare. Inoltre, la sua espressività corporea è nettamente distinta da quella dei giocatori di movimento. I gesti che egli compie lo portano a volare, a tuffarsi lateralmente verso il basso, a saltare e inarcarsi. Nel calcio razionalizzato e ipertatticizzato, la figura del portiere incorporava la sopravvivenza del 'buon selvatico' e di un segmento di ludicità. Tutto ciò fa (faceva) del portiere non già un 'ruolo fra gli altri', ma un 'attore a parte'. Il suo specialismo non sta (non stava) nell'avere affinato, nel corso del tempo, una gamma di 'comportamenti attesi', ma nell'essere originariamente destinatario di 'mansioni uniche e non replicabili' all'interno di una squadra. 

Viceversa, il 'nuovo portiere' presenta un profilo ampiamente modificato. Esso è stato convertito in un ruolo come gli altri, pur mantenendo le proprie specificità gestuali e stilistiche. Nel calcio attuale, infatti, il portiere è sempre più strettamente coinvolto nel lavoro tattico della squadra, che gli affida addirittura delle specifiche mansioni nell'impostazione del gioco. La sua diversità è sempre più ridotta, pressoché limitata alla facoltà di toccare il pallone con le mani all'interno dell'area di rigore. Ma sono cambiate anche molte cose, nel profilo del portiere. Effettuando il confronto coi portieri pre-'92 (o pre-zona, allargando il discorso all'evoluzione tattica e non soltanto regolamentare), salta all'occhio come sia cambiata la 'territorialità'. L'estensione del raggio d'azione oltre l'area di rigore, determinata dalla diffusione della zona e dalla necessità di proteggere porzioni di campo più ampie, ha comportato un mutamento che non è soltanto quantitativo, ma anche qualitativo. Infatti, il portiere ha perso il requisito di 'extraterritorialità' costituito dal suo peculiare rapporto con lo spazio dell'area di rigore. Come è stato sottolineato nel primo capitolo, all'interno di quello spazio egli era il 'dominus', soprattutto perché il regolamento gli conferiva ampie facoltà per scongiurare l'assalto degli attaccanti avversari. 

Questa situazione di 'extraterritorialità' non esiste più, per effetto di una duplice influenza di 'pressione verso l'esterno' e 'svuotamento interno'. La 'pressione verso l'esterno' è diretta conseguenza della diffusione della zona, dell'allineamento dei difensori e della scomparsa del 'libero': ciò che sempre più di frequente chiama i portieri a abbandonare precipitosamente l'area di rigore e farsi incontro all'azione avversaria sulla trequarti. Lo 'svuotamento interno' è un effetto della regola introdotta nel 1992, che impedendo al portiere di raccogliere con le mani il pallone proveniente da un retropassaggio volontario di piede, incentiva gli attaccanti avversari a lanciarsi verso di lui con foga quasi insolente. E forse è proprio quest'ultimo elemento che, guardando per un attimo al corredo romantico del calcio e al suo mutamento, costituisce il dato più rilevante nella perdita di 'extraterritorialità' di cui il ruolo del portiere è stato fatto oggetto: 'la scomparsa del rispetto'. Il portiere era portatore di una diversità della quale i 'giocatori di movimento' erano indotti a avere riverenza. L'obbligo all'uso dei piedi ha annullato questa situazione, facendo del portiere un facile bersaglio del pressing avversario, armato contro lui facendo leva sul fatto che egli mai avrà pari confidenza nel trattare il pallone coi piedi, rispetto ai 'giocatori di movimento'. L'idea stessa che il portiere sia stato trasformato nell'anello debole delle trame difensive avversarie parte, appunto, da una latente 'mancanza di rispetto' verso un profilo di giocatore trasformato in modo talmente radicale da aver perso l'identità. 

La coazione all'utilizzo dei piedi ha indotto i portieri a uscire sempre più sovente dalla loro area, e non soltanto in fase di contrasto di un attacco avversario. Trovatisi trasformati in 'calcianti' alla stregua dei 10 compagni di squadra, essi hanno assunto mansioni che fino a qualche anno fa erano affidate principalmente ai difensori centrali (e soprattutto al libero, quando esisteva): la battuta lunga di un calcio piazzato, dai primi 30-40 metri. I portieri ormai battono non soltanto le rimesse dal fondo, ma anche i calci di punizione entro la propria trequarti. Nell'assumere questi compiti, essi sono stati incoraggiati dai loro allenatori, sempre ansiosi di far scattare nel tempo più breve possibile il pressing e il fuorigioco; effetti difficili da ottenere, se un difensore si attarda a salire da fondocampo dopo la battuta di un calcio da fermo. Sicché, largo all'utilizzo dei portieri per le riprese del gioco. Una consuetudine che fino ai primi anni '90 era esclusiva del calcio britannico e della sua filosofia stilistica etichettata come 'long ball'. Col risultato che gli spazi di gioco si sono fatti sempre più ristretti e intasati. Tale abilità nel trattare il pallone coi piedi è ormai una qualità talmente preziosa da indurre alcuni allenatori, nella scelta del portiere, a privilegiarla rispetto a quella della destrezza fra i pali. Il che costituisce la negazione della specificità, e dell'identità stessa del 'ruolo-non ruolo' del portiere. 

Ma non è ancora tutto, purtroppo. Perché la più profonda e significativa trasformazione cui il profilo del portiere è andato incontro è anche quella che maggiormente è passata inosservata. Essa riguarda il fatto che i portieri non volino più. Il lento e costante processo di razionalizzazione del gioco ha colpito i portieri paralizzandone la vena mattoide e imbrigliandone l'esuberanza acrobatica. In questo caso, la trasformazione è da ricondurre soltanto in misura limitata alla diffusione della zona e alla correzione regolamentare del 1992. Già da tempo i portieri andavano perdendo questa propensione stilistica, in obbedienza a un'esigenza di disciplinare il ruolo che ha colpito il portiere più radicalmente di qualunque altro tipo di giocatore. Ciò era forse inevitabile, se si tiene conto che la logica della razionalizzazione impone il primato del gesto utile e funzionale. E quale altro ruolo poteva subirne l'impatto maggiore, se non quello caratterizzato dalla più spiccata propensione ludica? Il portiere di oggi è un burocrate della parata, alla continua ricerca dell'affinamento di una 'tecnica del piazzamento scientifico'. Il mantenimento della posizione verticale è diventato un imperativo, e il tuffo un'eccezione, un gesto estremo da spendere soltanto in caso di necessità. Per chi è cresciuto vedendo i portieri volare da un palo all'altro, suscita un senso di costrizione l'osservare come essi cerchino di spostarsi orizzontalmente per raggiungere le traiettorie angolate. Il volo è quasi scomparso perché è inutile: o si è piazzati in modo efficiente, e perciò basta spostarsi moderatamente per essere sulla traiettoria, o il tiro è imparabile (per merito dell'attaccante, o maldestro piazzamento del portiere), e allora volare è soltanto una vana concessione allo spettacolo, oltreché la plateale ammissione dell'errore. Meglio muoversi con passi sghembi, rigidi, dimostrando una parsimonia del gesto che mai sarebbe stata individuabile nei portieri vecchia maniera. 

E forse proprio qui sta il punto. Il portiere che non vola è la metafora di un cambiamento sconvolgente, non solo per il ruolo ma per il calcio intero. La folle genialità dei portieri stava proprio in quel tuffarsi gratuito, che spesso non aveva altro motivo che appagare un istinto animale di librarsi nell'aria, e sprigionare un'esuberanza repressa nei lunghi scorci trascorsi in solitudine, mentre il resto della gara si svolgeva a una cinquantina di metri di distanza. Molti gol, fino alla fine degli anni '80, venivano resi stupendi dal tuffo vano del portiere. Il quale dispensava così un tocco di plasticità alla prodezza dell'attaccante avversario, in un impeto d'altruismo che era puro istinto ludico e inclinazione estetica. Personalmente, ci rimarrà per sempre nella memoria un'immagine che ha battezzato il nostro rapporto personale col calcio, riempiendolo di stupore e sentimento. Una foto che ritraeva Zoff, sospeso in volo, a guardare dietro sé un pallone appena entrato in rete. Era l'immagine che negli anni immediatamente seguenti i Mondiali di calcio del 1974 simboleggiò più di ogni altra la disfatta azzurra a quella manifestazione; immortalava il gol del 2-0 polacco, siglato da Deyna con un colpo di testa a parabola sul quale Zoff s'inarcò vanamente. Nella plasticità immobile di quell'insieme, dalla sospensione del portiere azzurro allo sguardo frustrato dal vano sforzo, al pallone che tocca la rete a mezz'altezza, c'è tutta la bellezza sconvolgente del calcio perduto. Un gioco fatto di gesti individuali e spettacolari, pensati e espressi non soltanto per essere utili, ma anche per dare sfogo a uno spirito ludico che più di ogni altro incorpora quell'idea di 'spettacolo' e 'spettacolarizzazione' che i sacerdoti del 'pensiero unico calcistico' pretendono di far coincidere col 'gioco offensivo'. Il fatto che i portieri non volino più significa non soltanto che a essere cambiato sia il loro ruolo, ma che sia il calcio stesso come gioco ad avere imboccato un percorso triste e anti-ludico, nel quale la spontaneità del gesto è repressa e disciplinata. Una perdita irreparabile, della quale nessuno mai potrà risarcirci. E una perdita di se stessi per i portieri, costretti a ammazzare il loro Es per fare spazio a un "Io tatticizzato" tiranneggiante come mai. Per questo motivo ci torna alla mente un'altra frase di Stefano Tacconi, pronunciata mentre seguiva le immagini di uno Juventus-Udinese del febbraio 2002. Commentando una sequenza in cui si vedeva il portiere friulano Turci proiettarsi in attacco, nel finale di partita, in occasione di un calcio d'angolo, Tacconi disse con un tono amareggiato: <Mi sembra una cosa ridicola>. No, non ridicola. Forse soltanto tragica. L'estremizzazione di un ruolo che ha perso l'attore, e di un attore privato d'identità e territorio. Apolide rinnegato che cerca se stesso vagando disperatamente per il campo. di Pippo Russo

 

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