La conferenza stampa
Blasi ha deciso: lascia Un lungo respiro taglia il prolungato ed iniziale silenzio. Gigi Blasi è provato. Ha appena ascoltato il comunicato che spiega le ragioni della conferenza stampa. Sguardo fisso, animo inquieto. La decisione maturata domenica sera e che si appresta a comunicare via etere, non è delle più facili. Gli episodi accaduti prima e durante Cavese-Taranto hanno lasciato il segno e creano il più classico degli spartiacque. Concetti semplici e crudi che aprono incerti scenari: Gigi Blasi non è più presidente del Taranto, la Taranto Sport è in vendita. Si chiude una gestione piena di sogni e ideali, si apre un periodo virtuale, che ha la scadenza nel 30 giugno.
«Chiedo scusa alla tifoseria vera, ma da questo momento mi dimetto da presidente del Taranto». Quello che era nell'aria, si tramuta in pensieri ed azioni. Blasi pesa le parole e manifesta il suo rammarico.
«Sono deluso ed emozionato. Sono anche stanco di sopportare tanti insulti e questi continui atti di violenza. Questo è un calcio che non mi appartiene e sono deciso a non tornare indietro».
Blasi lascia. Il Taranto è in vendita «Vado via. Mi dimetto. Sono stanco, deluso ed amareggiato per quanto è avvenuto a Cava dei Tirreni. Da questo momento la squadra è in silenzio-stampa fino a giugno». Dalle ore 15,48 di ieri pomeriggio Luigi Blasi non è più il presidente del Taranto. L’annuncio-choc è stato dato dall’imprenditore manduriano nella sala-stampa dello "Iacovone". «Non dovete sorprendervi. Fa parte del mio essere. Non sopporto la violenza. Non l’ho mai subìta. Se ben ricordate, fin da quando assunsi la presidenza del Taranto, fui chiaro: chiesi ai supporters rossoblù di incitare a gran voce e con molto entusiasmo la squadra, ma aggiunsi pure che avrei adottato tolleranza zero contro gli episodi deprecabili. È esattamente quello che farò dalla prossima partita in poi». Blasi parla come un fiume in piena. Non ha digerito gli insulti e le parole “pesanti” incassate inaspettatamente allorché si è recato verso la curva in cui erano sistemati i tifosi tarantini a Cava per convicerli dal desistere dalle aspre e feroci contestazioni riguardanti la maglia biancoverde indossata da Deflorio e compagni. «Non è il colore della maglia a certificare se il cuore e l’attaccamemnto sono doc. Ma sono gli atti concreti ed importanti quali gli investimenti economici e l’attenzione nel gestire la società a garantire l’"amore" del presidente verso la maglia rossoblù. Quando quelle squallide scene sono state viste dalla mia famiglia, sia mia moglie che mio figlio mi hanno immediatamente contattato preoccupati per la salute. Ma chi te lo fa fare a rischiare l’incolumità? Mi hanno chiesto quasi all’unisono. E che dire dello schiaffo dato a De Liguori? Spero che qualche tv lo faccia vedere». Ma il presidente Blasi ha allargato il suo raggio di attenzione, rivolgendosi alle istituzioni cittadine. «Mi sento totalmente abbandonato. Forse sono capitato nel periodo sbagliato. Sono assenti gli interlocutori importanti». Non sono mancate le frecciate alla Lega: «Si limita soltanto a comminare multe, anche salate, per fatti di cui la società non solo non ha la minima colpa, quanto è la prima parte lesa. Queste leggi sono anacronistiche. Vanno riviste ed aggiornate. La responsabilità oggettiva andrebbe abolita». Il futuro è ammantato di tante nubi minacciose. Blasi, però, non scappa. Non lascia la squadra in balia del suo destino. «Fino al 30 giugno manterrò tutti gli impegni presi con il settore tecnico, compresi l’arrivo dei due acquisti che presenteremo a breve. Ma non illudetevi. D’ora in poi al primo segnale di violenza, non farò scendere la squadra in campo. Questo significa che se i deprecabili episodi dovessero ancora continuare, la squadra ritornerà nel campionato in cui l’ho presa. Mi spiace, ma è così». Ma cosa potrebbe far ritornare Blasi sulle proprie decisioni? «E' semplice - spiega - basterà che la parte violenta della tifoseria non frequenti più né lo Iacovone né altri stadi. Ma sinceramente ho fortissimi dubbi che ciò accada. Faccio un appello alla parte sana ai veri supporters: isoliamo i facinorosi». di Giuseppe Dimito
«Taranto, addio» L’emozione lo tradisce quando parla del figlio. Mirko lo ha chiamato sul cellulare, mentre il presidente del Taranto Blasi era sotto la curva dei suoi tifosi. Stava tentando di calmarli, mentre dagli spalti piovevano insulti. Per quella maglia verde e bianca indossata al posto della casacca rossoblu. Una scelta obbligata, per il Taranto, visto che l’arbitro aveva deciso di scendere in campo con la tenuta rossa. Una questione cromatica che però ha dato la stura alle proteste che hanno idealmente ripreso i disordini avvenuti all’esterno dello stadio perchè alcuni tifosi ionici non avevano il biglietto oppure si erano presentati a Cava con il ticket falso. Quando il presidente della rinascita si è presentato sotto gli spalti per tentare di smorzare la reazione dei tifosi gli è piovuto addosso di tutti. Insulti che nelle sue parole sembrano aver avuto l’effetto di pugnalate al cuore. Insulti contro di lui, contro la sua famiglia. Poi ricorda la vibrazione del cellulare e lui che risponde. «Papà stai bene?» gli ha chiesto il bambino vedendo in televisione il padre che affrontava la folla di quelli che dovrebbero essere i suoi tifosi. E’ in quel momento che Blasi ha smesso di essere il presidente del Taranto. Non per le multe, tutte pagate puntualmente, o per le conseguenze della follia che ora si ripercuoteranno sulla squadra con prevedibili sanzioni disciplinari. Semplicemente perchè quando ha preso in mano il timone del veliero rossoblu aveva in mente delle priorità. Quelle che nelle sue parole diventano “i paletti” del progetto. Tra questi c’era la sconfitta dei violenti e la volontà di riportare allo stadio le famiglie. L’aspirazione che ieri pomeriggio si è frantumata sotto il settore ospiti dello stadio “Simonetta Lamberti” di Cava dei Tirreni. «E’ finita» spiaccica al telefono con la voce incrinata dall’emozione e dall’amarezza. E’ un Blasi diverso. Non è il solito guerriero. Il vulcano pronto ad esplodere contro il nemico del momento. Questa volta il presidente della rinascita è arrendevole e non vuole parlare. Lo farà alle 15, ma le sue intenzioni sono sin troppo chiare. «Questo non è il mio Taranto. La violenza, gli insulti le bestemmie e le minacce gratuite non possono appartenere a me ed alla tante gente onesta di questa sfortunata città. Ora è davvero finita. Mi hanno fatto male. E poi, quelle immagini le hanno viste in tutto il mondo, con un danno d’immagine incalcolabile». A rendere più dolorose le ferite nell’animo di Blasi un retroscena amaro: le parole avvelenate che hanno annichilito il presidente arrivato da Manduria non sono arrivate solo dagli scalmanati di professione, ma anche da presunti insospettabili che la domenica levano la maschera da dottor Jeckyll e si mostrano come mister Hyde. In conferenza stampa il presidente annuncerà un disimpegno definitivo ed irrevocabile. Anche Walter Scotti, componente del CdA, ha annunciato le sue dimissioni. Ad interrompere l’era Blasi ci ha pensato chi ieri, al Lamberti, ha fatto rivedere quanto già andato in onda in occasione della trasferta di Castellammare. Già allora il presidente aveva fatto sentire la sua voce, un “mai più” che avrebbe dovuto suonare come un monito alla sua tifoseria. Ma da quel 24 settembre sono passati quattro mesi, e già il film della violenza è stato ritrasmesso con come protagonisti, purtroppo, alcuni tarantini. Quegli stessi che, adesso, dovranno iniziare a pensare ad un futuro senza Blasi, che in quella che considerava la sua creatura adesso non si riconosce più. Verrà garantita la gestione ordinaria sino a fine stagione, ma l’avvenire del Taranto è un punto interrogativo. A far cambiare idea a Blasi potrebbe essere, forse, solo una cosa, una “scelta di campo” di tutta la tifoseria verso la non violenza. Ma questo, dalle nostre parti, sembra davvero difficile. di Giovanni Di Meo
Stiamo perdendo la partita della civiltà Diciamocelo: stiamo perdendo. Senza salvare nessuno, senza immaginarci immuni da macchie. Stiamo perdendo la partita della civiltà. Di tutte le partite la più importante. Tutti verso la sconfitta: non ci sono buoni e cattivi in questa brutta storia. Tutti complici, per ora: i cattivi avanzano se i buoni lo permettono. Se non ne ostacolano il cammino, se lasciano spazi da calpestare. Ovunque, anche nel calcio. Perché i violenti sono colonizzatori di terre di nessuno, di luoghi inesplorati. Dove non ci sono regole o ne è permessa la violazione: per timore o connivenza. Blasi si è arreso: stanco, deluso. Ha lasciato il Taranto: dimettendosi, promettendo innanzitutto a se stesso di non tornare indietro, riservandosi la gestione dell’ordinario, il rispetto degli impegni. La tristezza, però, è oltre le parole, gli acquisti possibili, il campionato che continuerà. E’ nell’aria irrespirabile, nella pesantezza dell’incedere, negli occhi lucidi. Nel brutto clima intorno, nella sensazione che tutto possa davvero finire. Ieri sembrava di udire, come sgradevole sottofondo, gli scricchiolii di un calcio prossimo a crollare. Pronto a travolgere tutti, lasciando per strada un mucchio di inutili detriti. Blasi, nel frattempo, parlava. Non è sembrato uno sfogo, non era una dichiarazione di rabbia destinata ad evaporare al primo sole. Tutto aveva un ragionamento alle spalle, una notte di cattivi pensieri. Nemmeno le pause aiutavano: permettevano di trattenere il respiro e le lacrime, ma infiltravano brutti flashback, spezzoni di vergogna. Un episodio, un altro. La ricostruzione di un pomeriggio con il pallone schiacciato in un angolo, oggetto superfluo e ostaggio della tensione. Responsabilità enormi, che Blasi ha allargato raccontando tutte le esagerazioni, sfiorando la Lega e le forze dell’ordine del posto. Ma niente accade (e niente sarebbe accaduto) senza una scintilla. Nulla (forse) sarebbe accaduto se non fosse arrivata gente senza biglietto, non ci fossero stati tentativi di sfondamento. E’ la causa, purtroppo. Senza di essa il processo sarebbe stato al contrario. Nessuno condanna per pregiudizio: a Melfi, l’anno scorso, non ci sono state parole contro i tifosi. Nemmeno contro chi reagì, nemmeno da Blasi. Non si giustificò la violenza, ma si condannò la provocazione e l’esagerato uso della forza. Se poi le parti si rovesciano la conclusione è chiara. E allora si vivono giorni come questi, con un enorme peso addosso. Il peso della sconfitta, della regressione morale. Il peso dell’abbandono. Il peso della libertà (di azione e di espressione) che improvvisamente sembra negata. Nessuno ha sognato questo calcio. Né Blasi né la Taranto sana. Nemmeno tanti di quelli che erano a Cava. Ma questo, adesso, è il calcio che ci spetta e che - il rischio esiste - forse non ci spetterà più. Calcio marcio a prescindere: dove lo scontro è premeditato (viaggiare con mazze nelle auto è un segno), dove un settore diventa per metà occupato da poliziotti e per metà da tifosi, dove un elicottero sorvola lo stadio e i lacrimogeni vengono sparati ad altezza d’uomo. Denunciarlo è un dovere, andare avanti non è un obbligo ma può ridiventare un piacere. Riprendendosi, però, i propri posti, riappropriandosi degli spazi giusti. Sottraendo potere ai violenti. Blasi ha scelto di arrivare al punto di discontinuità. Rompendo ad alta voce e a reti unificate. Chiarendo: non è più questa la strada, non è più possibile questa convivenza. E, in questo momento, serve scegliere. Serve il coraggio: di distanziarci tutti, di reagire. Stiamo perdendo, non fingiamo. E manca poco alla fine. Ma la partita si può riaprire. Possiamo riprenderci il calcio, possiamo rubare il pallone all’avversario e ripartire. Non è una chiamata alla guerra, ma una sfida di civiltà. Serve un impegno straordinario. Il pareggio non è utile. O si vince o si muore. di Fulvio Paglialunga
Occorre coraggio, ma lo troveremo? Tutte le misure sono state colmate, comprese quelle della pubblica decenza e dell’umana sopportazione. Da ieri Luigi Blasi è l’ex presidente del Taranto. Non siamo ancora al collasso agonistico: saranno mantenuti gli impegni assunti con i tesserati sino al 30 giugno. Ma la storia è finita, esaurita, chiusa. Blasi molla il Taranto, annunciando che la società è in vendita. La decisione è presa. La procedura del distacco è partita. Non si fermerà. Conviene considerarlo un gesto serio, terribilmente serio. Non ci sono equivoci. Ciò che incombe, accadrà. Del resto, basta guardare gli occhi di Blasi per capire che non c’è spazio per il ripensamento. Occhi lucidi di rabbia, espressione provata, parole commosse. Blasi si arrende dopo i fatti incresciosi di Cava: la violenza idiota, gli insulti, lo schiaffo a De Liguori, la storia - risibile - della maglia. Getta la spugna, dichiarando la propria sconfitta. «Io ho perso», dice passando idealmente il pallone ai... posteri. A chi verrà dopo di lui. Se ci sarà un dopo. Perché il futuro che rischia di non esistere è ora la posta in palio. L’ultima partita è anche la più difficile. Si tratta di capire se quella che appare la sconfitta di tutti - non solo di Blasi - può trasformarsi in un’occasione. Dipende da noi. Dipende da chi ancora vive la passione per il calcio come il decorso, esclusivamente interiore, di una bellissima malattia. E non come l’esibizione tribale di pulsioni aggressive. Dipende da noi. Dipende dalla nostra capacità di compiere lo sforzo decisivo per uscire dall’ipocrisia dilagante e dal paternalismo da stadio. Non serve ripetere che gli ultras violenti - dunque, non tutti - non sono veri tifosi. Purtroppo non è così. Il calcio è fatto anche di questi tifosi. Sono parte integrante dello spettacolo. Bisogna prenderne atto e rafforzare il sistema immunitario di chi ha voglia di opporsi: con gesti concreti, con il buon esempio, con comportamenti coerenti. Accettando di misurarsi con le asprezze della realtà, che è spesso brutta, sporca e cattiva. Per farlo, però, bisogna abbandonare il carosello delle solite ovvietà. Basta con la retorica della curva, basta con la storia del dodicesimo uomo in campo, basta con l’esaltazione del tifo massificato e militarizzato. Certo, serve coraggio. Un coraggio nuovo. Il coraggio con il quale abbandonare ogni paura e denunciare con fermezza le ambiguità e le connivenze. Riprendiamoci il calcio. Torniamo al tifo di una volta, a quell’amore primigenio, sincero, innocente. Anche allora gli stadi erano luoghi rumorosi e tempestosi, ma soli in mezzo alla folla anonima si riusciva finanche a familiarizzare con chi ci stava accanto, senza timori, senza sospetti. O si recupera quel clima o si diventa tutti complici dei "curvaioli", della loro logica, dei loro codici, della loro incultura. di Lorenzo D'Alò
Stadio Iacovone a rischio Adesso lo spauracchio si chiama Giudice Sportivo di serie C: cosa deciderà il dott. Pasquale Marino dopo gli incidenti di Cavese-Taranto? Mano pesante o occhio benevolo? Diciamolo subito: inutile farsi troppe illusioni. Il referto dell'arbitro Cavarretta di Trapani sarà decisivo per l'irrogazione della sanzione: e i colloqui informali intercorsi nel dopo-partita tra i dirigenti rossoblu e la giacchetta nera non legittimano previsioni ottimistiche.
Taranto, sconfitta totale La morte della ragione. E di questo calcio, di certe partite, di spalti che puzzano di lacrimogeni. Di sospensioni, scontri, scelte illogiche, storia capovolta, decisioni discutibili.
Le pagelle di Fulvio Paglialunga Fare le pagelle vuol dire esprimere un giudizio. Raccontare la partita di ognuno, indagare sugli adempimenti tattici e sulla prontezza tecnica dei giocatori. Per farlo serve una partita, non un coacervo di brutture. Non c’è stato calcio, a Cava. Quasi mai. E quei ventitrè minuti giocati sono troppo pochi per ricavare qualcosa di reale. Uno per uno andrebbe fatta la premessa psicologica: di una gara accennata per un po’ e poi coperta dal fumo dei lacrimogeni, appestata dall’aria irrespirabile. Drogata dalla botta psicologica, dalle energie spese per convincere l’arbitro a far riprendere la partita, per sfogarsi con la polizia (è avvenuto anche questo, in campo). E dalla paura non più vinta di aver già perso a tavolino. Il Taranto ha creduto che tutto fosse finito per volontà dell’arbitro e per ragioni di ordine pubblico. Ha pensato al peggio. Poi si è ritrovato in campo ma non ce l’ha fatta. Riempire le pagelle di parole non aiuta: sarebbe raccontare uno spezzone appena e descrivere ingenerosamente tutto il resto, come se fosse normale. Ma non è stato un pomeriggio normale: è stato marciume, dolore, stupore. Diciamolo: il Taranto non è giudicabile. Perché non è un’azione un lacrimogeno che vola, non è uno schema la violenza. E’ finito tutto male. Con troppi episodi negativi e troppe forze condizionanti. Troppe sconfitte sparse sugli spalti, nel tunnel, negli spogliatoi. Quando il calcio va così non è calcio. E, quindi, non si possono spendere frasi logiche.
Senza voto Niente pagelle, stavolta. Non avrebbero senso. Ogni giudizio sarebbe viziato da un pregiudizio, derivante da una partita che, da un certo punto in poi, prosegue solo per la Cavese. Per il Taranto non continua, non va avanti, non si sviluppa. Resta inchiodata alla seconda sospensione, quella che dura cinquanta minuti e che svuota la squadra, paralizzandola. Obblighi di tabellino ci costringono ad assegnare ad ogni giocatore un voto. Ci troverete tre sufficienze (Barasso, Colombini e De Liguori) e la mediocrità diffusa espressa da qualche 5,5 e molti 5. Ma non si tratta di giudizi di merito. Fanno un po’ riferimento ai primi venti minuti. Ma sono, essenzialmente, la fotografia aritmetica della grande paura e del totale smarrimento che coglie tutta la squadra: chi più, chi meno. Da qui la necessità di non procedere con le abituali pagelle. Sarebbero un esercizio inutile al culmine di un confronto pieno di anomalie. Disturbato dalle interruzioni. E contaminato dai mal di pancia di una tifoseria in rotta col buon senso.
Taranto "tradito" dai tifosi Battuto dalla Cavese, stordito dai propri tifosi. A perdere tutto (la partita, il senso dell’orientamento, la tranquillità) è il Taranto, che cade e si fa male. A farlo capitolare sono i gol di De Giorgio (rigore) e di Ercolano. A farlo deragliare, scaricandolo psicologicamente, sino a ridulro ad un ammasso informe, è quello che accade in curva nord, il settore destinato ai sostenori rossoblù. E’ lì che la partita diventa frammento, perdendo unità di trama e d’intreccio. E’ lì che si consuma un altro pomeriggio di follie e assurdità, di tumulti e porcherie. Due sospensioni spaccano la partita, deturpandola irrimediabilmente. La prima è un livido sul racconto: dura tre minuti. Non influisce. La seconda è una cicatrice permanente: dura cinquanta minuti - un’eternità - e sfregia Cavese-Taranto, rendendola irriconoscibile. Commentare una partita così, priva di un filo logico, eternamente interrotta, è impossibile. Ammantarla di significati calcistici, facendo riferimento alla tecnica, alla tattica e alla strategia, è sconsigliabile. Non è in fondo ad una partita ostaggio delle tensioni sugli spalti che si può giudicare chi dovrebbe solo giocarla. E, invece, si ritrova costretto a fermarsi, riprendere il gioco, precipitarsi negli spogliatoi, cambiare la maglia, rientrare in campo. Passando da uno stato d’ansia ad uno stato di frustrazione. La partita vera dura poco. Ci sono la Cavese e il Taranto con i loro impianti speculari (4-3-3). C’è il tentativo, immediatamente visibile, della squadra di Papagni di prendersi il campo e la scena. C’è Panini a completare la difesa a quattro. Ci sono Larosa, De Liguori e Toledo a formare l’inedito terzetto di centrocampo. E poi c’è il tridente: di nome (Cammarata-Deflorio-Ambrosi) e di fatto (non sono particolari cautele in fase di non possesso). E c’è, soprattutto, il disagio della Cavese, che rischia grosso al 17’, quando Cammarata, servito da Toledo, sbaglia il più facile dei gol con l’esterno del piede sinistro. La partita vera finisce qui. Perché sta già accadendo qualcosa di anomalo in curva nord. I tifosi contestano l’improbabile tenuta verde (maglia e pantaloncini) con la quale il Taranto è sceso in campo. Rossoblù tradito, una specie di attentato ai colori della fede. C’è chi vuole abbandonare. In quel momento arrivano i cinque bus che trasportano gli ultrà. Sono in ritardo. Polizia e carabinieri, prima di farli entrare, procedono alla perquisizione. E, secondo la versione delle forze dell’ordine, trovano di tutto: spranghe, catene e bombe-carta. Cominciano gli scontri. Piovono lacrimogeni nello stadio. E’ il 23’. E scatta la prima sospensione. Si resta sul prato. Tre minuti di pausa e si riprende. Ma al 29’ parte una carica delle forze dell’ordine: parapiglia e altri lacrimogeni, alcuni sparati ad altezza d’uomo. Arbitro e giocatori si ritirano negli spogliatoi. Si teme la sospensione definitiva. Ma non è così. Papagni, Deflorio, De Liguori e Blasi vanno sotto la curva per calmare i tifosi. Ricevono l’ordine di cambiare la tenuta di gioco: quel verde pisello non li rappresenta. Le squadre tornano in campo. Il Taranto è ora in rossoblù (maglietta a maniche corte). La terna arbitrale lascia il completo rosso e si ripresenta in giallo. L’aggiornamento cromatico, però, non placa i tifosi. Esplode un petardo nelle vicinanze di un gruppo di poliziotti che ha nel frattempo abbandonato la curva. Un funzionario di polizia richiama l’attenzione dell’arbitro: si torna negli spogliatoi. Il Taranto resta in campo. Sembra finita. Poi il questore di Salerno, via telefono, dà l’ok perché la partita riprenda. Cavese-Taranto torna ad un’apparente normalità. C’è da giocare l’ultimo quarto d’ora del primo tempo (più recupero). Il Taranto, che ha temuto di perdere a tavolino, è ora un guscio vuoto, in balia delle sue paure. La Cavese ne approfitta, raccattando un rigore con Aquino. Il contatto con Panini comincia fuori area. La caduta dell’attaccante campano è dentro. Dal dischetto De Giorgio non perdona (42’). La ripresa è per il Taranto un inutile supplizio. Nulla ormai può farlo rientrare in partita. Il raddoppio di Ercolano, di testa, su cross dalla sinistra di Schetter, è una mazzata tremenda (6’). Entrano Cejas e Zito, escono Panini e Cammarata. Papagni ripristina il 4-4-2. Ma è tutto vano. Il Taranto non risponde più ai comandi. Barasso salva sull’incornata di Ercolano e sul tiro a volo di De Giorgio. Entra Catania (fuori Toledo). Finale impersonale. Ora si temono le conseguenze disciplinari. di Lorenzo D’Alò
Domenica di rabbia Oggi Blasi parlerà. E lo farà in modo tuonante. In diretta televisiva (contemporanea emissione su Studio 100 e Bs Television) e con una conferenza stampa che sarà convocata alle 15 allo stadio Iacovone. Non si conosce l'oggetto delle sue parole. Si vocifera di possibili dimissioni, ma questa è anche la prevedibile reazione ad una simile giornata. In realtà potrebbero essere differenti i motivi di questa conferenza anche perchè Blasi ha mostrato nel dopo partita più amarezza che rabbia, facendo riferimento ad operazione di mercato che potrebbero avere un sensibile rallentamento. Una domenica di rabbia, resa ancora più surreale dalla chiusura di tutti gli autogrill sulla Basentana. |